Il viaggio dentro di sé: dal labirinto alla trasformazione

LabirintoEsistono situazioni della vita in cui accade che la coscienza sia chiamata a una particolare sofferenza e lacerazione, momenti di profonda introversione, di ritiro di energia dagli eventi, dal lavoro, dalle relazioni. In questi momenti di crisi l’individuo spesso si sente come in un labirinto, intrappolato in una dimensione di cui non conosce la via d’uscita, in un vicolo cieco. Quando siamo in una fase di profonda introversione, difficilmente abbiamo la percezione di vivere una trasformazione, una prova di apertura a un altro ordine di significati e di senso. Si può richiamare una delle più efficaci e profonde esperienze trasformative: la seduzione. Prendiamo come esempio l’immagine tratta dalla mitologia del labirinto e del filo di Arianna che “se-duce”, ovvero letteralmente conduce a sé Teseo. Egli, con l’aiuto del filo di Arianna sta cercando di compiere un’impresa mai tentata prima: attraversare il labirinto per sconfiggere il Minotauro, assicurandosi anche la possibilità di tornare fuori una volta compiuta la difficile impresa. Allo stesso modo possiamo dire che nella vita, quando posti di fronte al confronto con le nostre parti oscure, ci lasciamo guidare nei meandri della nostra psiche fidandoci del fatto che esiste quel filo, quel rapporto che ci lega agli altri. Senza quel filo che congiunge l’interno con l’esterno, la fantasia con la realtà, la nostra vita non avrebbe senso, anche per il solo fatto di non essere comunicabile e condivisibile. Il filo ci lega alla verità dell’altro, crea una significatività empatica, proprio come accade a chi si lascia catturare e trasportare dalla seduzione che solo l’incontro con l’amata o l’amato può generare. Ma qui il volto dell’amore è quello di un mostro distruttivo e temibile. Eros è una divinità beffarda che sconvolge tutto, generando le passioni più grandi ma anche i dolori e le pene più profonde. L’altro diventa l’arcano di un desiderio e, come diceva Goethe i desideri “discendono dall’alto nelle loro proprie forme” intendendo che è impossibile afferrarli con la ragione. Per tornare al mito, si può dire che Teseo era innamorato dell’amore prima ancora che di Arianna, e per l’appunto a lei toccherà in sorte l’abbandono. Quella di Teseo è la storia dell’eterno Don Giovanni che per capriccio vuole gestire l’oscura forza del desiderio, sfidandola e, se necessario, distruggendola. L’oggetto su cui si posa tale desiderio non è che un mezzo, mentre il fine è quello di provare a se stessi che si è superiori alla temibile forza del perturbante, dispensatori onnipotenti di gioia e dolore. Arianna è l’altro volto della seduzione, quello di colei che ignara del fine e del mezzo, si lascia condurre altrove. Ella vive nel presente, non le interessa sapere cosa la attende, nel presente si compie già il senso della sua attesa, l’oggetto del suo amore è il fine, non il mezzo. Tuttavia anche Teseo è costretto ad ammettere che quel filo che ci lega all’altro, sia esso il mezzo o il fine della nostra esistenza, è indispensabile per vivere. E’ da esso che traiamo la forza necessaria per capovolgere situazioni difficili, la fiducia necessaria per sentirci eroi. Sapere che qualcuno ci pensa, ci desidera e ci attende alimenta la nostra sensazione di essere unici e insostituibili, l’incontro con l’amato ci colma di un appagamento che nessun’altra esperienza potrà mai darci. Qualcosa dentro di noi arriva alla completezza, non importa se è solo passeggero, perché nel momento in cui lo viviamo sfioriamo l’eterno.

L’immagine del labirinto come ripetizione, quando ogni strada sembra già percorsa e non conduce a nessuno sbocco si presta facilmente a un discorso sulla sofferenza psichica. L’individuo viene travolto da comportamenti e dinamiche relazionali che riproducono il fantasma di un rapporto primario. Nel labirinto non c’è direzionalità, il cammino diventa occasionale, la coscienza non ha più punti di riferimento. Altra caratteristica del percorso labirintico è la combinazione di vicoli ciechi e soprattutto biforcazioni che costringono la persona a operare una scelta.

Un’altra idea che l’immagine del labirinto contiene è quella del viaggio. Lo scopo del viaggiatore che si inoltra nel percorso è quello di raggiungere la camera centrale, la cripta dei misteri. Ma non si tratta soltanto di raggiungere tale cuore, la prova consiste anche nel saperne uscire per tornare al mondo reale. Il sogno d’angoscia è una rappresentazione tipica del labirinto. Sognare di trovare degli ostacoli in un percorso per raggiungere una meta appare come un’immagine archetipica del viaggio impedito. Il suo contenuto è chiaramente simbolico e ricco di preziose indicazioni sulle particolari caratteristiche delle difficoltà incontrate. Il cuore del labirinto è il suo centro su cui gravita tutta la tensione dell’individuo che lo percorre, è la sede del mistero, il luogo del divino o del mostruoso. L’uomo che ha raggiunto il centro non sarà più lo stesso una volta uscito da quel luogo perché lì ha incontrato una misteriosa congiunzione di opposti: l’immagine della sua doppia natura animale e divina.

L’immagine archetipica del labirinto esprime fondamentalmente il cammino della vita vissuta in modo autentico. Questo richiede scelte continue tra diverse direzioni di percorso e comporta inevitabilmente il rischio di deviazioni ed errori. Il labirinto diviene un continuo quesito che l’uomo pone a se stesso, vale a dire l’immagine dell’incertezza della coscienza e della precarietà delle sue acquisizioni.

Il percorso di trasformazione all’interno del labirinto assume un’importanza fondamentale all’interno di quel “viaggio” particolare che è l’analisi. L’inizio dell’analisi richiama il mito di Teseo che entra nel labirinto. Quando una domanda d’aiuto è autentica, essa testimonia una scelta più o meno inconscia di un desiderio di conoscenza profonda di sé.

Affrontare le prove labirintiche del vivere e della trasformazione, di per sé, non ha alcun valore se non conduce a una metabolizzazione dell’esperienza vissuta. Questa metabolizzazione si rende manifesta solo nell’incontro con l’altro. Anche quando questa alterità è solo immaginata, esiste comunque un dialogo segreto con un’entità a noi esterna. Come nel caso di Teseo che, una volta entrato nel labirinto, ha un rapporto soltanto virtuale con Arianna che verrà difatti abbandonata a prova conclusa, ma quello stesso rapporto è comunque fondamentale alla sopravvivenza dell’eroe. Non esiste vita se non c’è quel filo che ci tiene uniti all’esterno da cui ci nutriamo e che alimenta la nostra fiducia nel mondo.

Quel filo richiama uno dei concetti chiave della psicoanalisi contemporanea: la mutualità. Già Jung aveva riconosciuto l’importanza della mutualità in psicoterapia. In un lavoro del 1969 scriveva:

” Quando due personalità si incontrano è come se si mescolassero due sostanze chimiche; se c’è qualche forma di combinazione entrambe vengono trasformate”.

Alcuni junghiani contemporanei hanno portato avanti questa tradizione che considera la psicoanalisi una procedura mutua e dialettica grazie anche all’ampliamento della metafora junghiana in cui la situazione analitica è considerata come un processo chimico (o alchemico) nella quale avviene una trasformazione tra gli elementi individuali. Gli junghiani, basandosi sull’analogia del processo alchemico nel quale elementi individuali di base vengono mutuamente trasformati in oro, considerano la relazione terapeutica come un processo di trasformazione mutua e reciproca nel quale paziente e analista devono essere ugualmente trasformati.

Come accennato sopra, la mutualità è un principio centrale della psicoanalisi relazionale. Una relazione di alleanza terapeutica efficace sembra essere connessa a un’affermazione di sé, una comprensione, un’affiliazione, un’empatia e un rispetto mutui e reciproci. Ma non è soltanto l’empatia mutua a predire un buon esito terapeutico; è anche la capacità di entrambi i partecipanti di provare l’uno per l’altro un’ampia gamma di emozioni a predire un risultato positivo.

Secondo Aron (1996), se i pazienti non riescono a sentire di aver raggiunto i propri analisti, di averli commossi, fatti arrabbiare, feriti, inquietati, guariti, conosciuti in qualche modalità profonda, potrebbero non essere in grado di trarre alcun beneficio dall’analisi. La psicoanalisi da questo punto di vista è un profondo incontro emotivo che coinvolge due persone, due menti, due soggettività che si incontrano.

Dott.ssa Valentina Villani

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